...tante finestre differenti, come lo sono fra loro gli esseri umani e i loro punti di vista sul mondo.

Le finestre spalancate da

Le piccole fiabe di Anna


(Leggerai lentamente
queste rapidissime cose
lentamente scritte?)



Dal cap. I: "Le Regine"



Era la figlia del Re


Era la figlia del Re,
ma non lo sapeva.

La foresta, le spine, le bacche,
erano amare.
La luna
si nascondeva.

Lei si guardava le mani
le braccia graffiate.
Aveva sete, aveva
tanta paura.

Chi passa, laggiù, che la terra
si scuote
e anche il cielo
si agita, corre,
sembra tremare?

Cavallo perduto, anche tu,
forse,
sei stanco?

Hai sete,
hai paura?
Lei si rannicchiava
nel tronco cavo di un albero.

La inseguivano i fulmini.
Finirà?
Albero, finirà mai?

Dormi, ora, addormentati,
cerva stanca,
riposa.


Anna

Garanzia della gioia




A donde te escondiste, / Amado…”

(San Juan de la Cruz, Cantico espiritual, I,1)


Non un possesso ma uno spossessamento, una spoliazione, è il destino di chi si è inoltrato, anche una sola volta, anche per un attimo solo, in quel “claro” da cui tornare realmente indietro non si può.

Quell’attimo non sta più nel tempo: è il kairòs. Quello spazio non è più spazio geografico: è terra celeste, è l’Eden di cui avevamo perduto la percezione.
Eppure, quella  ritrovata capacità di percezione, quella finestra che per grazia improvvisamente si è aperta, non può far sì che il ritrovato paradiso non resti, comunque, un paradiso perduto.

Da qui la condizione paradossale di chi si sentirà ormai per sempre estraneo a tutto ciò che paradiso non è eppure dovrà riconoscere che, se  quella terra di Luce- e soltanto quella- è la sua terra, il suo luogo, il suo paese, essa tuttavia non gli appartiene: terra che gli ha dato, sì, notizia di sé, che egli potrà  -forse-  tornare ancora a contemplare, per rari barlumi di visione, ma sulla quale  porre stabilmente i piedi gli è precluso.

Il senso di esaltante prossimità ad un luogo di vita, vita quieta, luminosa, intatta,  l’istantaneo e definitivo riconoscimento del giardino, della “viriditas” (per usare il termine coniato da Ildegarda di Bingen), del verdeggiante -sempre rinascente-  mondo di verità che ti è  patria, casa, dimora: può darsi una condizione più beata di questa?

Il ritrovamento di quanto c’è, ormai,  per te,  di più prezioso (“O nobilissima viriditas / che hai le  radici nel sole…”), unito al senso e all’esperienza della sua inaccessibilità, della sua intangibilità (“noli me tangere”), del suo sottrarsi alla tua presa, del suo  svelarsi e del suo subitaneo nascondersi: può darsi una pena più grande, una più grande nostalgia?

Eppure: non è proprio la certezza di quella intangibilità su cui la tua presa  -la presa della tua vita non quieta, non luminosa, non intatta-  non può avere, in realtà, potere alcuno, non è proprio questo che, infine, ti fa riconoscere che cosa sia, come sia, il  bene vero, la  gioia,  il  paradiso?

Certezza acquisita a prezzo di disinganni e di errori infiniti, di un errare infinito. Inaudita e sempre apparentemente impossibile certezza. Inaudita, ignota, sul punto, sempre, d’ essere infranta e perduta: eppure sempre rifiorente certezza.

 “Garanzia della gioia”, ci spiega con poche folgoranti parole Emily Dickinson,   “è il suo rischio perenne".

 Anna


 
Hildegard Von Bingen   O nobilissima viriditas

Chiari del bosco

“Il chiaro del bosco – dice Marìa Zambrano-  è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite  e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. E’ un altro regno che un’anima abita e custodisce. Qualche uccello richiama l’attenzione invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra più nulla, nulla che non sia in un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’ istante e che mai più si darà così.  Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. E’ la lezione più immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. (…) Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano.”

(Marìa Zambrano, Claros del bosque, 1977. Traduzione dallo spagnolo di Carlo Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 11-12)

Musiche, figure, parole, canti, volti che, non cercati,  improvvisamente sfiorano e unificano la tua mente e ti fanno trasalire per il senso di “Vita Nova” che trasmettono… Eventi che, tra terra e cielo, si dischiudono,  ogni volta , proprio così:  come “un luogo intatto”, "un centro", “un altro regno” abitato e custodito da un’anima,come una discontinuità rispetto ad ogni dato noto, prefigurato, risaputo,  che è,  insieme, un improvviso riconoscimento…Quanto spesso accade!…

A questi "luoghi",  radure d’ombra e di luce, di raccoglimento e  risveglio, che sono simultaneamente la tua dimensione più segreta e quella che, soprattutto, vorresti comunicare e condividere, io dò ora, dopo aver letto questo libro di Marìa Zambrano, il nome di “chiari del bosco”.

“Chiari del bosco” sono certi dialoghi tra bambini. Certi portoni su inattesi misteriosi cortili, o chiostri, o fontane in mezzo a un giardino. Certe voci  non sai se umane o angeliche che senti levarsi  nel silenzio d’una perfetta liturgia. Certi gridi di uccello. Certi racconti di compiuta bellezza che ti placano e che ti inquietano. Certe frasi, che leggi o che ascolti e che non riesci a dimenticare.

Yuri Norstein   Ёжик в тумане
(Riccio nella nebbia)

Così un grande maestro del cinema di animazione russo, Yuri Norstein, comincia a narrare la genesi del suo film “Il riccio nella nebbia”: “Da tempo  avevo voglia di fare una storia nella quale lo spunto doveva essere una foglia d’autunno che cade al suolo. ..“. Ecco, questa frase è proprio  un preciso esempio di quali siano, e di come siano,  per me  - per ognuno sono diversi-  i “chiari del bosco”.

Anna

L'agave

Edo da un po' di tempo ripeteva che il passare degli anni stava modificando il suo modo di vivere le emozioni. Poteva capitargli di commuoversi davanti ad un bel tramonto e poi di restare impassibile nel ricevere una brutta notizia. Stentava a riconoscersi.
Non aveva tutti i torti. Anche io stavo subendo la stessa trasformazione. Ricordo che una sera, tornando da una cena, notai per la prima volta nella sua testa un capello bianco e, chissà perché, mi vennero in mente gli anni in cui ci scambiavamo le figurine dei calciatori. Inconsapevoli ed incolpevoli, non avevamo ancora idea del futuro e ci capitava sempre più spesso di parlare del passato.
Edo trascorreva le sue giornate a rimpiangere Eleonora. Lui, che aveva sempre preferito il rimorso al rimpianto, adesso doveva rimpiangere qualcuno, Eleonora. Che per diventare cigno aveva dovuto strangolare il brutto anatroccolo, Edo.
Di lei aveva pensato tutto quello che si può pensare. Eppure la rimpiangeva. Dovevo inventarmi qualcosa, glielo dovevo da amico. Non potevo continuare a vederlo così.
"Perché non mi accompagni a Monte Savio?"
Edo mi guardò tutt'altro che convinto. "A Monte Savio? E che ci fai tu a Monte Savio? C'è solo un'abbazia in mezzo al bosco. Guarda che è lontano, la strada per arrivarci è schifosa..."
"...ma il posto è splendido!" lo interruppi io con fare conciliante "E poi volevo andare proprio a trascorrere un fine settimana all'abbazia. Pace, tranquillità, natura."
Stava per replicare, non gliene diedi il tempo. "Un fine settimana, ho detto. Non di più. Rifiatare non può farci che bene. Io sono stressato dall'ufficio, tu ti stai accartocciando nei ricordi. Prendiamoci due giorni soltanto per noi. E che sarà mai!"
Barcollò ma non capitolò. "Matto. Tu sei matto..." sussurrò scuotendo la testa "E poi non ne ho voglia. Non sto male. Sono solo un po' stanco. Posso riposarmi anche a casa."
"E come no! A cercare nuove lacrime da piangere." Unii le mani e restai zitto alcuni istanti guardandomi attorno. Il salone di casa sua era pieno zeppo di quegli oggetti e quelle foto che sembrano fatti apposta per far venire il malumore a chi non ne ha bisogno.
La sua mancata reazione, tuttavia, mi fece sentire un po' in colpa. Forse ero stato troppo crudo. Corressi il tiro. "Ma come fai a non accorgerti che stiamo perdendo il nostro epicentro, viviamo i desideri di altri, seguiamo spesso comete sbagliate? Sinceramente, adesso dimmi: la vita che conduci è la tua o quella che ti hanno costruito attorno gli spot pubblicitari? Hai ben chiaro perché ti comporti in un modo piuttosto che in un altro? Non ti chiedo se sei felice, ma riesci qualche volta a prendere le distanze dall'infelicità?
Io credo di aver bisogno di far pace con le facoltà di pensiero e di parola. Ho bisogno di perdere l'orologio, ho bisogno di guardare un film in bianco e nero perché sento che questi colori mi stanno ingannando. Se gli spacciatori di realtà oggi distribuiscono solo reality, voglio dimenticarmi per qualche giorno la realtà. Ho bisogno di alzare gli occhi, Edo, e vedere solidi muri di pietra, alberi secolari, qualcosa che abbia sconfitto le mode. Ho bisogno di ritrovare il piacere di bere un semplicissimo bicchiere d'acqua, non queste aranciate. E voglio sentire la musica che sa ancora di legno, non i suoni campionati di un computer."
Restò immobile. Forse avevo colpito nel segno. C'è un argomento che gli è sempre stato particolarmente a cuore: la musica. Non lo avevo richiamato per caso. Si alzò dal divano e, continuando a lanciarmi brevi occhiate di falsa ostilità, si diresse verso il pianoforte. Lo aprì, si adagiò sullo sgabello e chiuse gli occhi. Le dita scivolarono sui tasti lasciando cadere sui nostri pensieri alcune note. Una melodia conosciuta, forse Bach, sfiorata, accennata e poi ritrattata, sfigurata. Era il suo modo di entrare in contatto con la musica. Si accese una sigaretta, la poggiò sulla conchiglia che usava come posacenere. Edo non fumava. Sapevo che la sigaretta si sarebbe lentamente trasformata in una colonnina di cenere, indisturbata, come una bacchetta d'incenso.
Le dita, nel frattempo, erano passate con proditoria leggerezza da Bach a Thelonious Monk.
Il piccolo busto di Giuseppe Verdi, al centro del pianoforte verticale, osservava severo gli occhi chiusi di Edo, infastidito forse appena dal fumo dell'inutile sigaretta.
Improvvisamente, le note di "Crepuscule with Nellie" si diradarono talmente da evaporare. Edo, riaperti gli occhi, chiuse la tastiera e restò con la testa china per un paio di secondi. Poi rientrò in sé. Si voltò e disse: "Sei proprio un rompiballe. Chissà se là c'è un pianoforte...". Era il suo modo di dirmi che sarebbe venuto.
Partimmo due giorni dopo, all'alba, per arrivare a Monte Savio prima dell'implacabile calura di giugno e, soprattutto, perché ci piaceva bucare l'aurora, passare inosservati nel mondo che, a quell'ora, sembra migliore.
Il viaggio scivolò via tra qualche caffè e molto Pat Metheny. Io guidavo, Edo s'incantava spesso guardando il paesaggio circostante e talvolta sonnecchiava. Ogni tanto mi godevo anch'io quel meraviglioso tramonto in sequenza capovolta. Ad un certo punto, non potei fare a meno di sfiorare con lo sguardo la chitarra che Edo si era portato dietro. Sapeva che non c'era un pianoforte a Monte Savio.
Giungemmo ai piedi della montagna dove sorge l'abbazia quando ormai il mattino scaldava il viso. Facemmo una sosta per respirare un po' d'aria pura e sgranchirci le gambe. Bevemmo da una sorgente che sgorgava dalla roccia poco distante dal guard-rail. Mentre mi rinfrescavo il viso notai l'inconfondibile fusto di un'agave che si ergeva sul resto della vegetazione proprio all'inizio della salita. "Vedi quella pianta molto alta?" dissi a Edo asciugandomi la faccia con un fazzoletto. Lui si voltò ed ebbe un attimo di esitazione. "Cos'è?" mi chiese.
"Un'agave. Quando è così alta vuole dire che è fiorita, cioè è morta. Tra non molto cadrà per spargere tutt'intorno i semi del suo fiore e continuare il ciclo della vita. Dai semi nasceranno altre piante di agave che, al loro culmine, faranno la stessa cosa."
Non sembrò particolarmente colpito dal discorso. Risalimmo in macchina e ci avviammo per l'ultima mezzora di strada bianca.
L'abbazia di Monte Savio ci apparve all'improvviso dopo l'ultimo tornante, severa nella sua semplicità. Solido ed imperturbabile, quel gigante di granito chiaro metteva un po' in soggezione. Ma fu una brevissima impressione, forse soltanto l'effetto del debito d'ossigeno dovuto all'altitudine.
Ci accolse l'abate priore, con il quale sbrigammo le formalità essenziali prima di essere accompagnati nelle nostre camere. Io alloggiavo a poca distanza dall'antica casa canonica, Edo dalla parte opposta dello stesso corridoio. Erano due stanze ricavate da antiche celle ormai in disuso.
Il giorno del nostro arrivo ci rivedemmo soltanto a pranzo, nella piccola foresteria che si affacciava sul chiostro. Seduti allo stesso tavolo, uno di fronte all'altro, per qualche minuto ascoltammo soltanto lo scricchiolio delle panche di legno sulle quali eravamo adagiati.
I pasti vengono consumati dai monaci in silenzio. Gli ospiti, pur non essendo tenuti al rigido rispetto del silenzio più assoluto, parlano il meno possibile. Poche e sommesse parole.
"Che te ne pare?" sussurrai. Edo mi guardò, portò alla bocca un pezzo di pane e, senza mai smettere di essere serio, rispose: "Tutto questo silenzio fa venire voglia di ascoltare". Il suo sguardo si arrampicò sulle pareti della vecchia foresteria, ne percorse un tratto poi si bloccò oltre la finestra, in un punto imprecisato del chiostro. "Qui dentro anche i muri hanno qualcosa da dire. Sta a noi saperli ascoltare".
"E' per questo che ogni tanto ho bisogno di venire qui" mormorai accingendomi a mandar giù il primo ed ultimo sorso di un vino rosso troppo robusto per uno stomaco di pianura.
Il pomeriggio, all'interno dell'abbazia, è dedicato allo studio. Al fresco della mia camera, spartana ma confortevole, io passavo il tempo a leggere e prendere appunti per il mio nuovo libro, la biografia di un regista cinematografico.
Quando mancava più di un'ora alla cena, i muri di granito che mi circondavano lasciarono filtrare il ronzio ovattato di quello che doveva essere un canto gregoriano.
Erano i vespri. Aprii la porta, mi affacciai sul corridoio e notai l'ombra di Edo, seduto sul muretto, con la schiena appoggiata ad uno degli archi che incorniciano il chiostro. Imbracciava la chitarra ed accompagnava il canto dei monaci con discrezione, quasi pudore.
Non aveva notato la mia presenza. Meglio così. Inseguiva i suoi pensieri, preferii lasciarlo in compagnia della sola luce del tramonto.
Tornai nella mia stanza. Mi coricai sul letto con le mani dietro la testa e le gambe incrociate. Il giorno dopo saremmo ripartiti per Cagliari. Decisi di godermi le ultime ore della rarefatta solitudine dell'abbazia, dove per esistere non è necessario sembrare, dove il silenzio non significa indifferenza e la notte ti abbraccia senza chiederti niente in cambio.
Ritornai su queste riflessioni durante tutto il viaggio di ritorno, la mattina seguente.
Ai piedi della montagna, l'agave non c'era più. Aveva compiuto il suo estremo sacrificio per la conservazione della specie. Strano destino. Proprio nel momento di maggior bellezza deve morire per legge di natura.
Ascoltai molto Keith Jarrett, al ritorno. Ero molto più pensieroso che all'andata. Riavvolsi più volte il nastro dei giorni trascorsi nell'abbazia e, guardando il sedile dove all'andata c'era la chitarra di Edo, pensai che la vita è proprio imprevedibile.
A volte per riconoscere la nostra strada abbiamo bisogno di un aiuto, di una mano che ci spinga verso un apparente baratro oppure sposti di qualche metro il fascio di luce con il quale illuminiamo il nostro cammino. Abbiamo bisogno di ricominciare proprio quando ci sembra di essere arrivati, di lasciare tutto e ripartire da zero. Accettando il prezzo da pagare, la fatica da ingoiare.
L'aria fresca di quel mattino la ricordo ancora. Tornerò ancora a Monte Savio. E ti porterò il pianoforte che mi hai chiesto, padre Edoardo.

Mansardo    

     

Una lettera

Egregio Presidente,

sono un'impiegata dell'impresa di pulizie che Lei ritiene essere sovradimensionata per le esigenze della sua società e, per questo motivo, ha deciso di mettere da parte.
So bene come andranno a finire le cose. Il sindacato ribatterà che si devono garantire i livelli occupazionali, Lei insisterà sulla necessità di ridurre drasticamente il servizio e si arriverà al compromesso che si lavorerà meno, per lavorare tutte, oppure si salveranno soltanto la metà delle attuali dipendenti, ma con l'orario immutato.
Qualcuna sarà prepensionata (non è il mio caso), qualcun'altra verrà collocata in cassa integrazione, magari a zero ore, altre ancora troveranno lavoro in imprese collegate. Chissà dove, chissà per quanto.
Sicuramente molte di noi dovranno rivedere il bilancio familiare, perché non si potranno più permettere il lusso di contare su 800 euri al mese.
Ecco, io potrei essere una di queste. Non mi spaventa, sono cresciuta dovendo quotidianamente affrontare mille difficoltà.
Sa Presidente, alle privazioni ci si abitua. Sin da ragazzina ho dovuto tirare la cinghia anche se, a dire il vero, una cinghia nemmeno ce l'avevo. Abitavo con mia madre e mia sorella più piccola in un quartiere fiorente e gonfio di speranze e promesse soltanto per due mesi ogni cinque anni, durante le campagne elettorali.
Trenta metri quadri in tre. Mio padre lo ricordo appena, morì che avevo pochi anni.
Si viveva della sua pensione di operaio, a cui si aggiungevano pochi spiccioli per l'accompagnamento di mia madre, non vedente. Spesso stavamo al buio, per risparmiare e perché mia madre della luce non sapeva che farsene. Io e mia sorella studiavamo al lume di candela.
Siamo sempre andate d'accordo. La sera, mentre mia madre ascoltava la radio per addormentarsi, giocavamo al gioco dell'oca o a battaglia navale.
Sono cresciuta senza PlayStation eppure ero felice. La TV arrivò in casa nostra quando un lontano zio si comprò un nuovo televisore a colori e ci regalò il suo vecchio 14 pollici in bianco e nero, con i canali che saltavano spesso e l'audio velato.
Per noi l'arrivo della TV fu un evento emozionante, di cui ingenuamente ci vantammo anche a scuola. Ma fu anche l'inizio di un periodo molto doloroso.
Allora avevo diciassette anni, mia sorella due in meno.
Lo zio di cui ho parlato venne a portarci la nostra piccola TV una domenica mattina. Non dovette suonare il campanello perché proprio in quel momento mia sorella teneva la porta di casa aperta per poggiare sul pianerottolo il sacchetto delle immondizie. Lui salutò ed entrò.
Io in quel momento stavo facendo il bagno nella vasca piena di acqua calda e sali profumati. Me lo potevo permettere soltanto la domenica e volevo gustarmelo fino in fondo. Lui non era mai stato a casa nostra. Passò davanti al bagno proprio mentre io uscivo dalla vasca. La porta era aperta, come sempre. Quando si vive con una non vedente non si fa tanto caso a certi pudori. Io e mia sorella talvolta giravamo seminude per casa, senza alcuna malizia.
Mio zio mi fissò per alcuni secondi, prima che riuscissi a prendere l'accappatoio e chiudere la porta.
Qualche giorno dopo squillò il telefono. Rispose mia sorella. Era lui.
Non ci girò molto intorno. Mi disse che molte mie coetanee potevano fare una vita più agiata della mia perché ogni tanto facevano compagnia a persone anziane e bisognose di intimità.
Si lavorava poco e si guadagnava bene. Lui controllava e faceva in modo che non succedesse niente a nessuno e che gli incontri si svolgessero nella massima riservatezza e pulizia.
Lo mandai a cagare. Non ero neanche sicura fosse davvero mio zio.
Poche settimane dopo arrivò Natale. Un triste, tristissimo Natale. Anche mia madre ci aveva lasciato, i primi giorni di dicembre. L'unico reddito per me e mia sorella era ormai la pensione di mio padre. O meglio, quello che ne restava. Le prospettive dell'immediato futuro erano poco felici.
Il giorno dell'Epifania "lo zio" chiamò ancora e, dopo le condoglianze, mi chiese se ero ancora arrabbiata con lui. Questa volta non gli sbattei il telefono in faccia.
Gli incontri si svolgevano in un monolocale della costa, appartato, decoroso, abbastanza pulito ma con un forte odore di umido, arredato con gusto dozzinale e, date le circostanze, equivoco. I primi tempi lavoravo un paio d'ore una volta alla settimana, ben presto i giorni diventarono una decina al mese.
Molti pensionati, qualche agente di commercio, turnisti, dipendenti in trasferta e militari. Si agitavano sul mio corpo acerbo per pochi minuti, dopo avermi toccato dappertutto rudemente, senza il minimo sentimento. Ricordo ancora l'alito puzzolente di tanti corpi sfatti, gli occhi impregnati di vino, le loro unghie sporche su di me. Ho visto tante cicatrici, tanti nei. Ho respirato tanto sudore e fumo di sigaretta. Alcuni clienti erano evidentemente abituati a certi incontri, altri invece recitavano un ruolo che non gli si addiceva, con frasi forzatamente volgari per darsi un tono. Magari a casa li stava spettando una figlia della mia età.
La mia discesa all'inferno durò sei mesi. Un pomeriggio si presentarono in due, pieni di tatuaggi e di proposte insostenibili. Io, con la scusa di andare in bagno a lavarmi, scappai dalla finestra e corsi fino a sentire il cuore scoppiarmi in gola. Tornai a casa molto tardi, in autostop.
Dopo due giorni lui mi telefonò. Mi riempì di insulti e, con mia grande sorpresa, mi disse che aveva già in mente di scaricarmi perché ero ormai maggiorenne, ma che un giorno l'avrei cercato io e mi avrebbe ripreso soltanto alle sue condizioni.
Stavolta fu lui a sbattermi il telefono in faccia. Non l'ho più sentito in vita mia.
Qualche mese più tardi risposi ad un'inserzione sul giornale. Si trattava di un posto part-time di segretaria presso un'associazione di artigiani. Compenso da fame, tutto in nero, nessun contributo previdenziale, orari pesanti. Un ricatto per disperati, ma io ero disperata e accettai.
La sede sociale era uno stanzino al piano terra di uno stabile fatiscente appena fuori città.
Mi comprai un paio di pantaloni e un maglioncino dai cinesi sotto casa per assumere un aspetto dignitoso. Con un vasetto di fiori e due quadretti provai anche a rendere più grazioso ed accogliente l'ufficio così spoglio, striminzito e sperduto ma per me così importante.
Il mio lavoro consisteva nel rispondere al telefono, spedire la corrispondenza e verbalizzare durante le riunioni. Per arrotondare la paga non affrancavo le lettere destinate ai soci e le consegnavo a mano. I soldi per i francobolli, tolte le spese per i biglietti del pullman, restavano a me. Fu proprio in occasione di una di queste consegne che conobbi l'anno scorso il proprietario dell'impresa di pulizie dove ho lavorato fino a oggi. Cercava nuovo personale e mi propose di fare un periodo di prova di tre mesi. Il resto della storia lo può intuire, Presidente.
Adesso Lei si starà chiedendo come mai Le ho raccontato tutte queste cose. Non si preoccupi, non intendo elemosinare una raccomandazione o chiedere la carità di una proroga dell'impiego. Il mio destino è affidato al gioco delle parti, ho un destino precario. Ricominciare non mi spaventa più. Ma ho una sorella più piccola ed ho promesso a mia madre, quando era in punto di morte, di vigilare su di lei. Questo pensiero mi ha sempre dato la forza di sopportare tutte le umiliazioni che ho dovuto subire e di maturare la convinzione di risparmiarle almeno a lei.
Non ho altre pretese che proteggere la sua dignità.
Ma lo sa che la settimana scorsa stavo pulendo la barca del titolare dell'impresa di pulizia ormeggiata al porticciolo e all'improvviso dall'imbarcazione accanto è uscito Lei con la sigaretta in bocca e un fascio di quotidiani sotto il braccio? Aveva un bel paio di occhiali da sole, pantaloncini e ciabatte. Non mi ha vista e per non metterLa in imbarazzo anche io ho fatto finta di niente.
Vede Presidente, da quel giorno mi sono chiesta spesso dove avevo già visto la cicatrice che Lei ha sotto lo stomaco. Stanotte mi sono ricordata.
Io e la sua cicatrice ci siamo conosciuti nel monolocale sulla costa. Lei non può ricordarsi di me, io invece fatico a non pensarci. Ma con un po' di buona volontà potrei dimenticare. Perché esistono anche cicatrici che possono scegliere di non sanguinare.
Con deferenza.


Mansardo 

" ....tutto l'amore che può stare dentro una vita."

Della memoria non si butta niente. 
L'importante è che ogni tassello abbia la sua giusta collocazione. Come un mosaico, come un puzzle. Perchè il passare degli anni ha il compito di sbriciolare anche i ricordi. Come una facciata che perde prima il colore e poi l'intonaco, diventando un muro irriconoscibile come tanti altri, nudo, inerme, pronto per essere ingoiato dall'oblìo che, come un impietoso rampicante, lo avvolge e lo nasconde alla vista. 
E allora le tessere della memoria devono incastrarsi bene, per resistere all'assalto del tempo il più a lungo possibile.
Seduto sulla sabbia, con la testa appoggiata a una roccia, ti viene in mente perché la notte scorsa non hai dormito. Troppe brutte notizie, ieri. Vite spezzate o deturpate da violenza, malattie, degrado. E' come se la fragilità e la provvisorietà della vita stessa ti fossero cadute addosso all'improvviso, con tutto il loro ineluttabile peso.
In un attimo si può passare dalla serenità all'angoscia. Dalla vita alla morte. Non ti è ancora ben chiaro, ma hai cominciato a intuire che dispiaceri, spaventi e lutti servono ad apprezzare di più la quotidianità, i gesti semplici di chi ti vuol bene, un sorriso sconosciuto. Sono insostituibili momenti di crescita, dolorosi come tutti i passaggi della vita che ci cambiano, duri e privi di lusinghe, apparentemente disperati.
Mentre sei immerso nei tuoi pensieri senti il labrador abbaiare davanti alla scogliera. Ti alzi e ti avvicini a lui, lo accarezzi e gli chiedi "Cosa hai trovato?". Con un guaito quasi festoso, scodinzolante e trepidante, ti indica con il muso un pezzo di carta piegato nascosto tra due rocce. Lo prendi e lentamente lo apri.
Molto lentamente. E' sicuramente lì da molto tempo, quasi incartapecorito, un po' ingiallito. Devi maneggiarlo con molta attenzione per evitare che ti resti in mano soltanto un mucchio di coriandoli.
Leggi il messaggio e capisci subito che si tratta di una delle lettere dell'uomo rimasto bambino.
Un'improvvisa brezzolina ti spettina con discrezione. L'uomo rimasto bambino...Abbassi lo sguardo e cerchi di ricordare la sua storia.
Enzo, il suo vero nome, oggi ha 40 anni e vive per strada. Parla da solo, scrive poesie su un vecchissimo quaderno a righe e le offre ai passanti in cambio di qualche spicciolo per sopravvivere.
Tanti anni prima, quando aveva soltanto dodici anni, Enzo tutte le settimane d'estate accompagnava il padre a fare pesca subacquea. Arrivavano insieme la mattina presto, quasi sempre la domenica, e, mentre il padre si immergeva nel tratto di mare davanti alla costa, Enzo restava seduto su una roccia ad aspettarlo, ammirato e orgoglioso. All'ora di pranzo facevano rientro a casa con il pescato e per tutto il tragitto Enzo chiedeva al padre quanto erano belli i fondali, se era stato difficile catturare le prede, e prometteva che un giorno sarebbe stato lui a portare ai suoi genitori il pesce fresco tutte le settimane.
In quelle domeniche d'estate del 1980, padre e figlio ebbero appena il tempo di conoscersi, di tenersi per mano e parlare del futuro.
Ma una cosa è parlare del futuro, altra cosa è viverlo.
Una domenica mattina di fine agosto, una bellissima giornata di sole, il padre si mise la muta, entrò in acqua e, prima di sistemarsi il boccaglio, salutò come sempre il ragazzino che lo fissava dalla riva. Poi sparì nel mare calmo e luccicante. Per l'ultima volta.
Come facciamo a sapere quando è l'ultima volta che diamo un bacio in fronte ai nostri figli, guardiamo negli occhi nostra moglie, ne sentiamo il profumo, le passiamo una mano tra i capelli?
Enzo restò ad aspettarlo, immobile sulla solita roccia, quasi fino all'imbrunire, con gli occhi fissi sul mare e sulle barche improvvisamente numerose, finché uno zio non lo riportò a casa provando a convincerlo che il padre aveva avvisato che sarebbe tornato più tardi perché aveva trovato una zona particolarmente pescosa e ci avrebbe impiegato molto più tempo.
Da quel giorno, per cinque anni, Enzo è tornato tutte le domeniche ad aspettare il genitore, seduto sullo stesso scoglio portando ogni volta con sé un biglietto, da lasciare tra le rocce, nel quale raccontava al padre quello che succedeva in casa mentre lui era a pesca. Molti di quei messaggi sono andati perduti, strappati e dispersi dalle onde, mangiati dal vento e dalla salsedine.
Guardi l'orizzonte e ricordi che anni fa trovasti un altro biglietto, uno dei primi. Ne ricordi perfettamente il contenuto. "Ciao papà, come stai? Chissà quanti pesci hai già preso e che fondali meravigliosi devi aver trovato! Mamma dice che sicuramente stai bene e ci pensi sempre. So anche io che è così, perché sai che noi ti stiamo aspettando per farci una grande mangiata di pesce. Mi raccomando, stai attento...hai sempre detto anche tu che in mare non ci si deve fidare mai. Se riesci a farmi sapere quando torni mi porterò dietro la macchina fotografica per farti una foto quando esci dall'acqua con tutti i pesci. Voglio far morire d'invidia i miei compagni di scuola! Ciao papi, ti voglio bene. Saluti anche da mamma. Enzo"
Hai gli occhi umidi, come potrebbe essere altrimenti?, e rileggi il biglietto che hai appena trovato. Forse l'ultimo scritto dall'uomo rimasto bambino.
"Papà, se puoi torna subito, per favore. Adesso abbiamo bisogno di te. Ti ricordi gli esami che doveva fare mamma? Martedì ritira i referti. E' molto triste e credo che ti vorrebbe vicino. Mi ha detto che andrà a ritirarli a piedi e che spera sia una giornata molto luminosa perché al ritorno avrà bisogno degli occhiali da sole. Te l'ho detto, è molto triste, papà. Perciò torna presto, appena puoi. Non fa niente se hai poco pesce. Ho capito, sai, che non hai pescato molto, altrimenti non saresti rimasto tanto tempo in acqua. Non fa niente, papà. Mangeremo quello che c'è e staremo vicino alla mamma, è più importante. Fammi sapere, ti aspetto al solito posto. Ciao. Enzo".
Poche settimane più tardi anche la madre si arrese. Enzo fu affidato a parenti svogliati e per niente intenzionati a gestire il suo disagio.
In poco tempo fu inevitabilmente internato. Troppi anni vissuti senza qualcuno che gli augurasse la buonanotte o gli rimboccasse le coperte. Troppe le ore passate su quella roccia, davanti a domande senza risposte.
Oggi tutto quello che possiede l'uomo rimasto bambino è un quaderno delle elementari dove scrive poesie, rubate ai suoi anni rubati.
Si è alzato un po' di vento. Ripieghi il foglietto e lo rimetti tra gli scogli, un po' più nascosto. Pensi che sia giusto che resti dove Enzo volle custodirlo.
Il tuo labrador, nel frattempo, ha ripreso a giocare con le onde della risacca.
Vorresti che il tempo si fermasse o perlomeno non alterasse mai la tua capacità di godere dei piccoli gesti, della presenza di chi ti ama, dell'amore di chi è assente.
Sai bene invece che il tempo non è illimitato e la mano che adesso stringi un giorno lascerà il posto a petali di rosa, morbidi e profumati. Prima di quel giorno, che non sai quando arriverà, se non vuoi avere rimpianti devi aver vissuto tutto l'amore che può stare dentro una vita.

Mansardo 

"...troppa polvere nei miei occhi."

<< Sapessi che pena, mamma. Sono vecchio e non so perché, non so da quando.
Ieri sono caduto dalla bicicletta, mi hanno detto.
Ho sbattuto la testa, mi hanno detto.

Ho ventisette anni ma ne dimostro molti di più. Ottanta, mi hanno detto.
Ottanta? Non diranno sul serio, vero? Ottanta non li hai nemmeno tu.
Dove ho messo tutti gli anni? Non capisco.
Che fine hanno fatto le mie gioie, le mie speranze?
Le mie foto. I fiori che avrei voluto regalare.
Non mi è stato nemmeno concesso il beneficio della nostalgia. Non posso permettermela.
Come ho fatto ad arrivare fin qui? Mi è stata rubata anche la paura.
Stanotte la mia vita ha subito uno strappo. Sarei anche disposto a piangere, se sapessi per cosa.
Oggi un medico mi ha detto che questa è casa mia. Una casa enorme, piena di sconosciuti. Tanti vecchi. Io qui non ci ho mai vissuto. Ho cercato di dirlo al medico. Lui non mi ha dato ascolto ed è andato via perché ha sentito un suono provenire dalla sua giacca, si è messo qualcosa in un orecchio e ha cominciato a parlare da solo con un filo. Penso che sia matto.
Stamattina mi hanno presentato un sacco di gente nuova. Qualcuno mi ha portato dei vestiti perché non ricordo più dove ho conservato i miei. Sono vestiti adatti a una persona anziana. Ma io ho 27 anni. Sono un vecchio di 27 anni.
Vorrei tanto che qualcuno mi portasse anche dei ricordi. Ho bisogno di sapere perché. Perché lo specchio non restituisce più la mia faccia. Perché i miei capelli sono già tutti bianchi. Perché la mia mano trema un po' e si è riempita di macchioline.
Avrei voluto parlarne con Maggie. Ho provato a chiamarla, ma al suo numero risponde un'altra persona che dice di non conoscere nessuna Maggie.
Ho cercato di spiegare che è la donna che ho sempre amato. Oggi ho deciso di dirglielo prima che sia troppo tardi. Non mi hanno dato retta. Nessuno ha mai sentito parlare di Maggie.
Dopo pranzo sono andato al negozio di zio Donald. Non c'è più. Al suo posto ho trovato una rivendita di quadri di metallo con i ritratti parlanti. Anche zio Donald non c'è più.
E dire che ieri era tutto diverso. Ogni cosa al suo posto.
Oggi invece il tempo fa di me ciò che vuole. Sfregia il mio viso.
Non ho più molta voglia di cercare di capire il futuro.
Non so se mi comprerò un'altra bicicletta.
Adesso davvero non reggo il peso delle ciglia spelacchiate.
Adesso mi sento proprio stanco.

Troppa polvere, mamma, troppa polvere nei miei occhi. >>

Mansardo
 
 
Testo ispirato alla vita di Henry Gustav Molaison, conosciuto dai neurologi di tutto il mondo come il paziente "H.M.", deceduto tempo fa all'età di 82 anni nello Stato del Connecticut (USA), dopo aver vissuto cinquantacinque anni senza essere in grado di costruire un solo ricordo o di memorizzare una sola esperienza quotidiana.
 

" La conoscenza si guardò allo specchio e si vide immaginazione..."



"Il presente non è mai il nostro fine, il passato ed il presente sono i nostri mezzi, solo l'avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai ma aspettiamo di vivere". 
Blaise Pascal

Fu chiesto a un musicista "Come mai, dopo essere stati negli anni '70 un simbolo della musica contemporanea, oggi siete diventati un gruppo pop?".
Risposta "Come mai lei non usa gli stessi abiti che indossava negli anni '70? Come mai non è pettinato allo stesso modo?"

Già, come mai?

Perché il tempo non aspetta. O forse siamo noi a non sapere dove aspetta.
Perchè da bambino chiedevo a mia zia di lasciarmi dividere i ravioli fatti in casa. Prendevo la rotellina zigzagata e separavo le file di palline di ripieno racchiuse da due strati di sfoglia, mangiando i bordi esterni di pasta cruda avanzata.
Perché quando ero piccolo non moriva nessuno, tutt'al più qualcuno si assentava temporaneamente per lavoro. E non tornava indietro facilmente perché, guarda caso, il lavoro era vicino al cielo.
Perché quando ero ragazzo la donna era ancora un universo misterioso da conquistare e si dovevano sudare sette camicie per sbottonare una camicetta.
Perché ho respirato aria senza amianto, ho bevuto latte senza colla, ho guidato macchine senza poggiatesta, ho conosciuto tanti amici anche senza internet.
Perchè ogni tanto ci capitavano personaggi che la realtà aveva preso in prestito dalla fantasia e si era dimenticata di restituirli in tempo.
Perché quando i sogni zoppicavano un po' bastavano un libro e una radiolina.
Perché ogni tanto torniamo sul luogo del delitto, ma sbagliamo luogo o sbagliamo delitto.

Il tempo non aspetta, dunque. Dobbiamo stare al suo passo, che all'inizio ci sembra lento, lentissimo, poi con il passare degli anni diventa sempre più veloce. Tanto che a un certo punto non riusciamo più a stargli dietro. Ma il tempo è sempre uguale. Non è lui che cambia.

Quante volte, discutendo con amici o con sconosciuti, in qualunque contesto, ci proiettiamo in dimensioni lontane da quella in cui ci troviamo. "Ti ricordi quando...?", "Cosa farai...?"

Passato, presente, futuro...

C'è chi sostiene che il presente non esiste, ma sarebbe soltanto la linea di demarcazione ideale (cioè immaginaria) tra passato e futuro. In pratica, la soglia sottilissima attraverso la quale il futuro diventerebbe passato con il trascorrere del tempo. Anche il più piccolo gesto, prima di essere fatto apparterrebbe al futuro, appena compiuto verrebbe immediatamente preso in consegna dal passato.
Una teoria opposta afferma invece che passato e futuro sarebbero semplici stati mentali, rappresentazioni pure e semplici della nostra memoria (il passato) e della nostra immaginazione (il futuro), e che esiste soltanto il presente, l'unica dimensione tangibile. Noi quindi vivremmo un eterno presente, tutto il resto sarebbe un'elaborazione della nostra mente.

Penso che entrambi questi orientamenti contengano elementi di verità e corrispondano a due modi diversi di gestire il passare del tempo, di mettere ordine nelle priorità individuali, di concepire la vita. La nostra percezione del tempo è soggettiva e condizionata dagli eventi. Aderire a una della due correnti di pensiero in una fase della nostra esistenza non preclude la possibilità di riconoscersi nell'altra in un periodo successivo.
E non siamo immuni da ingannevoli giochi di luce: le ombre cinesi del presente, le iridescenze del futuro, i riflessi del passato.


Ma si può anche provare a immaginare un corto circuito...
Il passato è uno specchio, il futuro una finestra.
Nel primo vediamo la nostra figura riflessa e tutto ciò che c'è alle nostre spalle, immobile.
Dalla seconda vediamo l'orizzonte, le nuvole, le montagne. E oltre, chissà.
Un giorno, un uomo provò a mettere lo specchio di fronte alla finestra. Vide le sue sembianze circondate dal cielo che riempiva di luce la stanza.
Imparò a guardare al futuro attraverso l'osservazione del passato.
Nello scenario interiore trasfigurato dal corto circuito temporale, la conoscenza si guardò allo specchio e si vide immaginazione, il rimorso si vide paura, il rimpianto speranza.
Nemmeno un brivido di malumore, soltanto un impercettibile rintocco di malinconia.

Mansardo 

Archivio